Il paese dei fanciulli

17 Febbraio 2024
Massimiliano

“L’analisi conduce al “paese dei fanciulli”, a quell’età in cui la coscienza razionale del presente non si è ancora separata dall’anima storica, dall’inconscio collettivo; e non solo al paese dove hanno origine i complessi infantili, ma in un paese preistorico che fu la culla di tutti noi”

  J. Jacobi, La Psicologia di C.G. Jung

La nostra storia origina da questo paese dei fanciulli, da lì proviene il nostro flusso di coscienza.

La domanda è: fino a che punto dobbiamo perdere l’intima connessione con questo mondo crepuscolare e arcaico? Quanto è funzionale che ciò accada per il nostro sviluppo psichico?

Dice la Jacobi: “è infantile chi resta troppo a lungo fanciullo, ma anche chi si separa dall’infanzia e creda perciò essa abbia cessato di esistere”. La realtà è che la psiche procede sia in avanti sia indietro: la coscienza si affranca dall’inconscio e spinge verso ulteriori significazioni di sé in un moto perpetuo di tipo progressivo che amplia lo sguardo verso il reale producendo tuttavia un enorme scarto; al contempo esiste una controspinta regressiva verso l’origine che riattiva la sorgente del movimento e ci ricollega al magma inconscio che può offrire nuove tracce esplorative. La nostra civiltà ha idolatrato unilateralmente l’atteggiamento razionale della coscienza dimenticandosi di quel lontano paese da cui provengono i nostri istinti naturali. Per questa ragione l’inconscio ci fa ancora tanta paura e talvolta genera panico. Non siamo più abituati a vederlo, a dialogare con le sue personificazioni.  Siamo ben disposti a riconoscerlo come oggetto passivo della nostra intenzione speculativa, ma decisamente meno quando semplicemente “accade” e diviene il soggetto della nostra stessa voce narrante. Se la progressione della coscienza esprime la necessità di adattarsi al mondo, la regressione esprime al contempo la necessità di adattarsi all’”intima legge dell’individuo”. Senza questo contromovimento interno non incontreremmo le immagini che sostanziano la psiche e perderemmo la possibilità di vivere simbolicamente la nostra vita. Questa è la ragion per cui distinguiamo una psicologia della sera da una psicologia del giorno, per dar voce a quel viaggio che ogni notte ci accompagna al mattino. Ogni giorno torniamo a quel fondale da cui originiamo e in forma più o meno lucida riemergiamo frastornati, angosciati o semplicemente sereni perché abbiamo vissuto una storia: rocambolesca, bizzarra, spesso incomprensibile, più semplicemente un sogno. Oggi è più che mai importante riacquisire dimestichezza con questa espressione psichica dal momento che, come ricorda Eraclito, «è la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi». L’uomo è nel sogno quanto nella realtà. In un periodo storico costellato dall’urgenza di recuperare gentilezza e rispetto verso la Natura ritrovare una connessione interiore con la nostra dimensione istintuale ci permetterebbe di integrarne il valore simbolico e rivalutarne la portata trasformativa.

Scrive Jung: “Ogni volta che entriamo in contatto con la natura riceviamo una pulizia. Le persone che hanno accumulato sporcizia da un’eccessiva civilizzazione sentono l’esigenza di una passeggiata nel bosco o di un bagno nel mare. Si sbarazzano delle catene e permettono alla natura di toccarli. Questo può essere fatto dall’interno o dall’esterno. Camminare nei boschi, sdraiarsi sull’erba, fare un bagno nel mare, riguardano l’esterno; accedere all’inconscio, accedere a sé stessi attraverso i sogni, è toccare la natura dall’interno e si tratta della stessa cosa”

Sostare nel linguaggio del sogno è approcciarsi a quella trama invisibile che riannette la nostra esistenza personale alla matrice originaria, quel paese dei fanciulli da cui hanno avuto inizio le nostre storie.

“Ascoltare. Ascoltare e basta.

Ascoltare meglio.

Sto sognando?

Impossibile dirlo.”

         Chandra Livia Candiani

“L’analisi conduce al “paese dei fanciulli”, a quell’età in cui la coscienza razionale del presente non si è ancora separata dall’anima storica, dall’inconscio collettivo; e non solo al paese dove hanno origine i complessi infantili, ma in un paese preistorico che fu la culla di tutti noi”

  J. Jacobi, La Psicologia di C.G. Jung

La nostra storia origina da questo paese dei fanciulli, da lì proviene il nostro flusso di coscienza.

La domanda è: fino a che punto dobbiamo perdere l’intima connessione con questo mondo crepuscolare e arcaico? Quanto è funzionale che ciò accada per il nostro sviluppo psichico?

Dice la Jacobi: “è infantile chi resta troppo a lungo fanciullo, ma anche chi si separa dall’infanzia e creda perciò essa abbia cessato di esistere”. La realtà è che la psiche procede sia in avanti sia indietro: la coscienza si affranca dall’inconscio e spinge verso ulteriori significazioni di sé in un moto perpetuo di tipo progressivo che amplia lo sguardo verso il reale producendo tuttavia un enorme scarto; al contempo esiste una controspinta regressiva verso l’origine che riattiva la sorgente del movimento e ci ricollega al magma inconscio che può offrire nuove tracce esplorative. La nostra civiltà ha idolatrato unilateralmente l’atteggiamento razionale della coscienza dimenticandosi di quel lontano paese da cui provengono i nostri istinti naturali. Per questa ragione l’inconscio ci fa ancora tanta paura e talvolta genera panico. Non siamo più abituati a vederlo, a dialogare con le sue personificazioni.  Siamo ben disposti a riconoscerlo come oggetto passivo della nostra intenzione speculativa, ma decisamente meno quando semplicemente “accade” e diviene il soggetto della nostra stessa voce narrante. Se la progressione della coscienza esprime la necessità di adattarsi al mondo, la regressione esprime al contempo la necessità di adattarsi all’”intima legge dell’individuo”. Senza questo contromovimento interno non incontreremmo le immagini che sostanziano la psiche e perderemmo la possibilità di vivere simbolicamente la nostra vita. Questa è la ragion per cui distinguiamo una psicologia della sera da una psicologia del giorno, per dar voce a quel viaggio che ogni notte ci accompagna al mattino. Ogni giorno torniamo a quel fondale da cui originiamo e in forma più o meno lucida riemergiamo frastornati, angosciati o semplicemente sereni perché abbiamo vissuto una storia: rocambolesca, bizzarra, spesso incomprensibile, più semplicemente un sogno. Oggi è più che mai importante riacquisire dimestichezza con questa espressione psichica dal momento che, come ricorda Eraclito, «è la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi». L’uomo è nel sogno quanto nella realtà. In un periodo storico costellato dall’urgenza di recuperare gentilezza e rispetto verso la Natura ritrovare una connessione interiore con la nostra dimensione istintuale ci permetterebbe di integrarne il valore simbolico e rivalutarne la portata trasformativa.

Scrive Jung: “Ogni volta che entriamo in contatto con la natura riceviamo una pulizia. Le persone che hanno accumulato sporcizia da un’eccessiva civilizzazione sentono l’esigenza di una passeggiata nel bosco o di un bagno nel mare. Si sbarazzano delle catene e permettono alla natura di toccarli. Questo può essere fatto dall’interno o dall’esterno. Camminare nei boschi, sdraiarsi sull’erba, fare un bagno nel mare, riguardano l’esterno; accedere all’inconscio, accedere a sé stessi attraverso i sogni, è toccare la natura dall’interno e si tratta della stessa cosa”

Sostare nel linguaggio del sogno è approcciarsi a quella trama invisibile che riannette la nostra esistenza personale alla matrice originaria, quel paese dei fanciulli da cui hanno avuto inizio le nostre storie.

“Ascoltare. Ascoltare e basta.

Ascoltare meglio.

Sto sognando?

Impossibile dirlo.”

         Chandra Livia Candiani

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